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Il falco minore

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Honda CB 450 SC Nighthawk - Il "Falco minore"
(by Nippon Seiki)

C’era una volta…
… a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, la Honda CM 400 Custom T, una piccola-grande moto dalla linea senza dubbio decorosa - se non proprio affascinante - spinta da un solido bicilindrico parallelo a 6 valvole (la T sta appunto per Twin). Oggi, con la filosofia custom ben radicata nel mondo motociclistico giovane e meno giovane (grazie anche al “fenomeno Harley”), sarebbe probabilmente una entry level di discreto successo per donne e neopatentati, grazie alle dimensioni contenute, alla facilità di guida, ai ridotti costi di gestione e, dulcis in fundo, alla fascinosità dell’abbondanza di cromature. Ma allora i tempi (e i gusti dei motociclisti) erano decisamente diversi, il pubblico italiano ed europeo non sembrava ancora maturo per le custom e, nelle medie cilindrate entro il mezzo litro, preferiva puntare su modelli più classici o sportivi, per capirci i vari Morini 3 ½, Guzzi V 35 e V 50, BMW R 45, Kawasaki Z 500, Suzuki GS 450 e Yamaha XS 400.
Morale: la 400 Custom bicilindrica ebbe scarso successo e, nel breve volgere di un triennio (1979-1981), fu mandata in pensione.



        





Honda CM 400 Custom Twin







Lo Zen e l’arte del riciclo
Gli amici nipponici sono bravi in tante cose, una di queste è l’arte del riciclaggio, ovvero riproporre modelli già ritirati dal mercato (magari dei “flop”, come in questo caso) sotto una nuova veste, ciclistica e/o motoristica, presentandoli come novità assoluta. La sensazione è sempre quella di un déja vu, ma sono talmente abili in questo campo che di solito riescono a farla franca, nel senso che puoi stare ore a guardare e riguardare sotto tutte le angolazioni la “novità” convinto di aver già visto questo o quel particolare, ma senza ricordare dove e quando… Nel quadro di un momentaneo raffreddamento di entusiasmo verso la cilindrata 400 cc in generale (dopo i fastosi anni ‘70 della strepitosa CB 400 four “4 in 1”), che spedirà poco dopo in pensione anche la più che dignitosa CB 400 N e manterrà in listino - limitatamente però alla prima metà del decennio e non sul mercato italiano - solo la bicilindrica CB 400 T (simile alla N e derivata dalla “hawk”) e VF 400 F, la Casa di Hamamatsu decise, negli anni ’80, di tentare nuovamente la strada della più collaudata 450 cc. Lo fece “irrobustendo” l’originale bicilindrico con l’aggiunta di 52 cc e montandolo – in tempi diversi – su due nuovi modelli che in comune (apparentemente) avevano ben poco, malgrado una sola “C” di differenza nella sigla: CB 450 SC (dove SC sta per “Sport Custom”) e CB 450 S (S ovviamente per “Sport”). Quest’ultima era una moto sportiva fino al midollo: già al primo colpo d’occhio sembrava anticipare l’era delle “moto GP replica” che domineranno il mercato dalla seconda metà degli ’80 a tutti gli anni ’90, a parte il fatto che di serie era… scarenata! Romberà da noi per un onesto quadriennio (dall’86 all’89), prima di essere mandata in pensione dalle più “cattive” (e apprezzate) CBR 400 e 600 e VFR 400 (non importata in Italia). Di tutt’altra pasta era invece fatta la cugina customizzante, protagonista di questo articolo.








La CB 450 S stesso motore della nighthawk, notare l'identico radiatorino dell'olio, ma ben altro ssetto













“Mamma” 400 e “figlie” 450 a confronto.
* Potenza riportata sul manuale d’officina 1986, altre fonti citano invece 42 o addirittura 45 CV e 9000 giri/minuto
** Inclusi olio motore e pieno carburante
*** Chiavi in mano, in lire dell’epoca


Falchi nella notte
In realtà, anche se sul mercato italiano le due 450 hanno debuttato pressoché contemporaneamente nella primavera del 1986, la SC era ormai giunta – in quell’anno – quasi al termine di un cammino iniziato 4 anni prima oltreoceano, quando era risorta dalle ceneri della appena defunta (il motore era ancora caldo!) CM 400 Custom. Forse consapevoli di non poter competere con lo strapotere della Harley proprio in casa sua, alla Honda avevano pensato – agli inizi degli anni ’80 – di lanciare sul mercato americano una nuova serie di motociclette che coniugasse la filosofia nipponica (sportività, affidabilità, essenzialità, eleganza) con quella tipicamente yankee, riassumibile nella semplice parola “custom”. Tradizionali regine della città (per molti la mitica sigla “CB” significherebbe proprio City Bike, anche se alla Honda non hanno mai voluto spiegarne ufficialmente il significato), le nipponiche dovevano nelle intenzioni diventarlo anche delle interminabili strade americane che, monotone e quasi senza curve, si snodano per miglia e miglia fra i campi del Midwest come nel deserto della California. Nacque così una nuova sigla (l’ennesima), “SC”, ovvero “Sport Custom”. Ma non bastava. Di sigle ce n’erano già tante – troppe, forse, e occorreva identificare ancor più chiaramente la nuova serie che si preparava ad essere lanciata sul mercato più vasto (ma anche più difficile) del mondo. Nacque così il nome “Nighthawk”, letteralmente “Falco della notte” (un paradosso ricercato, perché in natura non esistono falchi attivi di notte, e i rapaci notturni – gufi, civette & C. – sono altra cosa!): curiosamente, in quegli anni fu chiamato così anche un bizzarro caccia bimotore sperimentale dell’U.S. Air Force, l’F-117 Nighthawk, ma per una volta tanto i giapponesi non si possono incolpare di aver “copiato” alcunché, visto che l’aereo fu tenuto segreto dall’USAF fino al 1988, anno – altra curiosa coincidenza – della definitiva uscita dal mercato italiano della “nostra” Nighthawk! Magari uno dei progettisti della Lockheed era felice proprietario di una Nighthawk e, dovendo scegliere un nome per il nuovo aereo, propose quello della sua moto. Chissà...








Il caccia americano Lockeed F-117 Nighthawk.







Il falchetto italiano
La serie SC “Nighthawk” era alquanto eterogenea, comprendendo una mezza dozzina di cilindrate (250, 450, 550, 650, 700 e 750) e modelli che spaziavano dai bi- ai quadricilindrici, dalla trasmissione tradizionale a catena alla cardanica, dal faro tondo allo squadrato, ecc. I due modelli di punta – gli unici ad aver riscosso un discreto successo anche fuori dagli USA – erano indubbiamente la 450 e la 650: la prima, in particolare, divenne un po’ l’emblema della serie grazie al fascinoso colore nero semi-mat dei cilindri, che – in piacevole contrasto con l’abbondanza di cromature – fu scelto proprio per evocare l’oscurità della notte.
La CB 450 SC Nighthawk esordì sul mercato USA nel 1982, proposta in due diverse colorazioni: “rossa” (Candy Wineberry Red) e “nero-metallizzata” (Cosmo Black Metallic). La dicotomia cromatica rimarrà una costante nelle versioni a seguire (come del resto nella cugina maggiore 650), ma i colori originali della prima serie, in Italia, non li vedremo mai: il rosso cambierà semplicemente di tonalità (Candy Glory Red), ma il nero virerà in un meno tenebroso blu scuro (Candy Flair Blue), ed è in questi colori che i falchetti sbarcheranno da noi. Quasi ogni anno fino al 1986 saranno apportate piccole modifiche di restyling (riguardanti principalmente il colore di “filetti” e decals), ma proprio nell’ultimo anno di commercializzazione in America i cambiamenti si faranno più significativi: la splendida “Honda Wing” su ciascun fianco del serbatoio (di “ferro vero”, al contrario della banale decal appiccicata sugli altri modelli della serie) da dorata diventa argentata, ma soprattutto il parafango anteriore si uniforma al look di serbatoio, fianchetti e codone, diventando verniciato anziché cromato, ovviamente in entrambe le versioni. In pratica è questa la differenza più significativa e immediata che distingue l’ultima versione (di fatto l’unica “italiana”) dalle precedenti.











La versione 1986 della Nighthawk 450, l’unica commercializzata in Italia.









Un po’ di tecnica
Oltre all’abbondanza di cromature (tra cui meritano una citazione particolare il must del carter paracatena in acciaio e i due profili sottosella posteriori in alluminio), la concessione più evidente alle esigenze del mercato yankee è probabilmente la tanto amata - dai bikers americani - overdrive, ovvero la 6a marcia che, dopo una lunghissima 5a, praticamente in città ci si scorda di avere, salvo avventurarsi in tangenziali e Grandi Raccordi vari ma solo… di domenica. Viceversa, risulta godibilissima (ed economicissima) su strade lunghe, dritte, sgombre e senza semafori, come se ne trovano ancora in provincia o fuori porta.
Altra prerogativa di questa moto – quasi sprecata per gli americani, che come i cugini inglesi alle vibrazioni dovrebbero esserci così abituati da sentirne la mancanza, se non ci fossero – è il sistema di bilanciamento delle vibrazioni a contralbero, applicato alla classica distribuzione monoalbero a camme in testa comandata da catena, che agisce su 3 valvole per cilindro (due di aspirazione e una di scarico). L’alimentazione è data da una coppia di onesti carburatori Keihin VB 22, l’accensione è elettronica e l’avviamento esclusivamente elettrico (l’assenza del kickstarter, volgarmente “pedivella”, ancora non scontata per quei tempi, va invece considerata a mio avviso un punto a sfavore).
Il circuito di lubrificazione è a carter umido con pompa trocoidale, con il supporto di un peculiare ma efficiente radiatore di raffreddamento che permette al propulsore di lavorare in condizioni termiche più controllate. La frizione è di tipo classico, multidisco in bagno d’olio, robusta e ben modulabile (sopporta più che bene le strapazzate e il superlavoro nel traffico in città); cambio a ingranaggi sempre in presa a innesti frontali rapidi. La leva del cambio è ben posizionata e ai semafori la ricerca del folle non dà mai problemi: le marce entrano sempre lisce, per la felicità delle nostre scarpe sinistre… La trasmissione primaria è a ingranaggi, la secondaria a catena a maglie sigillate con O-Ring di tenuta.
Gli scarichi sono classici 2x2, con camera di compensazione intermedia tra collettori e terminali. Questi ultimi, a finto tromboncino, in originale sono cortissimi e molto eleganti, arrivando appena all’attacco degli ammortizzatori posteriori (Sito e Marving sono più lunghi e massicci, piuttosto sgraziati; tra le repliche, i Busso sono forse i più vicini all’originale ma quasi introvabili).










I silenziatori a tromboncino originali
sono molto corti e non superano l’attacco degli
ammortizzatori.







Ciclistica e assetto
Un altro classico - ma sempre valido - è l’agile telaio monotrave “a diamante”, tubolare in acciaio, accoppiato a oneste e tradizionalissime sospensioni. Un po’ sottodimensionata la forcella oleopneumatica all’avantreno, con steli di appena 33 mm diametro ed escursione di 160 mm, mentre al retrotreno il rendimento delle sospensioni posteriori (coppia di ammortizzatori a cappuccio teleidraulici VHD regolabili, che garantiscono 90 mm di escursione utile alla ruota posteriore ma si rivelano un po’ bruschi di risposta) è appena accettabile: diciamo che mamma Honda poteva fare di meglio... Da sottolineare le inedite ruote in lega con disegno a stella: l’anteriore di grande diametro (da 19’’) e ridotta sezione, la posteriore di piccolo diametro (da 16’’) e larga sezione, con pneumatici tubeless rispettivamente 100/90-19 e 130/90-16; la pressione a carico normale (fino a 90 kg, incluso pieno benzina) è 2,0 sia anteriore che posteriore, viaggiando col passeggero consiglio di portare a 2,2 l’anteriore e a 2,4-2,5 la posteriore. Nuovo e qualificante anche il freno a disco anteriore (diametro 276 mm) con pinza a doppio pistoncino parallelo, a mio avviso però ancora sottodimensionato (anche per l’epoca) rispetto a peso e potenza della moto: un doppio disco anteriore sarebbe stato senz’altro preferibile. Fa il suo onesto dovere invece il freno a tamburo posteriore monocamma, con indicatore di usura, da 140 mm di diametro.
Con la “buzzicona” 650, la cugina minore ha in comune il look customeggiante, che però grazie alle sue dimensioni più contenute (quasi 30 kg di peso e 5 cm di lunghezza in meno) risulta decisamente più aggraziato e leggero. L’assetto è morbido e rilassato, notevole la sensazione di equilibrio quando ci si assesta, grazie anche allo splendido e comodissimo sellone su due piani (con tanto di robusta cinghia passeggero) alto da terra poco più di 78 cm. Tuttavia - contrariamente ad altri che mi hanno preceduto con articoli e recensioni - non mi sento di consigliare senza riserve questa moto ai neopatentati, alle donne (salvo eccezioni) e più in generale a chi sia alto meno di 1,70 cm e magari non abbia molta forza nelle braccia: ingombro e peso (178 kg a secco, più 14 l di pieno di benzina e 2,5 l di olio in coppa) non indifferenti, uniti ad una non proprio agevole manovrabilità di parcheggio (si sente, tra l’altro, la mancanza di un bel maniglione robusto di serie tra sella e codone), rendono la Nighthawk 450 un po’ scorbutica al riguardo.









Gli ammortizzatori posteriori non sono
entusiasmanti, ma fanno il loro dovere.







Strumentistica e dotazione
Tanto bello quanto tradizionale (non sempre “nuovo è bello”, noi appassionati di moto d’epoca ne sappiamo qualcosa…), il gruppo faro/strumentazione è davvero un pezzo forte di questa moto. Tutto è piacevolmente old style, dal bellissimo faro rotondo sorretto dalle staffe porta-fanale (il tutto rigorosamente cromato, anche se purtroppo alquanto sensibile alla ruggine e da tenere perciò sempre sotto controllo) alla targa frontale cromata con la scritta HONDA in rilievo alla base delle staffe (che fa tanto “custom”), per finire con le fantastiche “freccione” dai bracci cromati (anziché i soliti, orrendi plasticoni) e dalle grandi gemme a nido d’ape. La scelta degli strumenti sembra quasi un omaggio ai tempi – irripetibili – dei fantastici anni ’70 e dello strapotere nipponico nelle due ruote: sono infatti i classici Nippon Seiki tachimetro/contachilometri totale e parziale (nella versione USA il tachimetro è a doppia scala miglia/chilometri) e contagiri, montati per un ventennio - si vedranno sempre meno a partire dagli anni ’90, fino a scomparire quasi del tutto ai giorni nostri - su tutte le moto “Made in Japan”. Girare dopo il tramonto con le luci accese avendo sotto gli occhi la fosforescenza verdolina rétro dei NS è pura goduria, che solo chi ha vissuto quegli anni in sella a una nipponica può apprezzare veramente e rivivere con la stessa emozione su una moto più “nuova” ma ben saldata al passato come la Nighthawk 450.
La centralina a 5 spie luminose (indicatori di direzione destra e sinistra, folle, abbagliante, pressione olio) è inserita al centro fra i due strumenti, proprio sopra il blocchetto d’accensione, e alla sua sinistra è posizionato il pomello dell’aria (che col tempo tende a “sbracarsi” un po’ e può non tenere la tutta apertura).
Attenti a non perdervi la chiave! È una sola e serve per tutto: accensione/bloccasterzo, tappo serbatoio, aggancio casco e sgancio sella. Il bloccasterzo è un po’ duro (difetto a quanto pare riscontrabile anche su qualche 650), ma il problema maggiore è lo scatto intermedio del giro-chiave, che può ingannare e avere conseguenze disastrose: convinti di aver bloccato lo sterzo, abbiamo invece inserito le luci di posizione da fermo, opzione evidentemente obbligatoria negli USA ma che, se non te ne accorgi (e di giorno è facile, garantisce chi scrive), ti mette a terra la batteria in poco tempo! Il tappo originale è di lusso (con tanto di rondella para-serratura) e il gancio laterale abbastanza capiente, buono anche per due caschi jet. La sella è del tipo asportabile, non a compasso dunque: si sgancia completamente agendo su due perni e si sostituisce con facilità. Un appunto va fatto semmai sul sotto-sella, risicatissimo: nella vaschettina centrale oltre agli attrezzi non si riesce a tenere null’altro, neppure un blocca-ruota (scordatevi la catena), mentre il vano porta-documenti ricavato nel codone (con coperchio in plastica) è buono, appunto, solo per i documenti! A proposito degli attrezzi: la dotazione è più che discreta, ma non essendo il primo proprietario della mia moto non posso giurare che sia quella originale…
Infine, un plauso al doppio cavalletto centrale e laterale, per quest’ultimo però si sente la mancanza di un interruttore di sicurezza.














Difficile essere più “old style”…









In sella
Portare la Nighthawk 450 è sempre un piacere, si guida rilassati senza quel pizzico di tensione che inevitabilmente fa capolino quando si è alle prese con moto più “cattive”. Scende in piega sempre con disinvoltura, offrendo buona stabilità. Le vibrazioni sono assai contenute, grazie al contralbero. Il motore è molto elastico, accetta senza far storie la tutta apertura anche nelle marce lunghe da meno di 2.000 giri (!) ed entra in coppia a 4.500-5.000 giri: da qui inizia una progressione pulita e costante fino a 10.000 giri. La velocità di crociera che ritengo ottimale quando si viaggia senza fretta e per puro piacere (come sempre dovrebbe essere su una moto come questa) è di 80 km/h a 4.000 giri in overdrive: ottimale anche per il consumo, che in queste condizioni tocca il minimo sfiorando a mio parere i 25 km/l (nel ciclo urbano siamo sui 20 km/l). A proposito: manca un indicatore del carburante, per cui quando il motore comincia a tossicchiare va girato manualmente il rubinetto sulla posizione “Res”, come ai vecchi tempi. Il contachilometri parziale ovviamente può aiutare a prevenire fastidiose entrate in riserva “in corsa”. Pare che in prova su pista la 450 Nighthawk abbia toccato i 160 km/h, personalmente non ho nessuna intenzione di confermarlo e non mi sono perciò mai spinto oltre i 120-130 km/h, più che sufficienti per la mia filosofia di guida.
A mio avviso è una moto che va usata magari poco, ma spesso, con regolarità: tenuta ferma troppo a lungo (oltre una settimana) non partirà certo al primo colpo di accensione, neppure d’estate e neppure se tenuta in box, e faticherà un po’ a trovare il minimo regolare. A proposito, non compratela se poi dovete tenerla all’aperto ed esposta alle intemperie: le abbondanti cromature sono incompatibili con pioggia e umidità, i teli servono a poco o a nulla e non c’è niente di più triste di un falchetto semi-corroso dalla ruggine.














Il sellone è molto
comodo, anche per il passeggero,
e facilmente asportabile.














Consigli per l’acquisto
L’Honda 450 Nighthawk non è certo una delle moto d’epoca più facilmente reperibili sul mercato italiano, anche a causa del breve periodo in cui è stata commercializzata da noi. La maggior parte di quelle a suo tempo vendute è stata trattata assai rudemente dai proprietari, oggi molte circolano ancora solo grazie all’eccezionale robustezza del motore e alla solida ciclistica, ma sono francamente impresentabili e, considerati i costi di restauro sproporzionati all’effettivo valore del mezzo, purtroppo condannate prima o poi alla rottamazione. Scorrendo gli annunci sul web si trovano comunque abbastanza facilmente buoni/discreti esemplari, ben conservati o parzialmente restaurati e già iscritti ASI/FMI, spesso con una buona dotazione di ricambi inclusa. La valutazione attuale (2014) è intorno ai 2.000 euro, con un’oscillazione di +/-20% a seconda dello stato di conservazione, dei lavori fatti (e documentati), dell’iscrizione o meno a un registro d’epoca, dei chilometri originali e degli eventuali ricambi. A proposito di questi ultimi, va detto che sono ancora reperibili nuovi alcuni originali Honda (ad esempio, le gemme delle frecce, da me trovate ancora imbustate a fine 2014!), la maggior parte però va ricercata sul mercato dell’usato. Quello italiano è assai limitato e, al solito, spesso esageratamente costoso. Tra USA e Canada, su eBay, si trova invece di tutto e a prezzi ragionevoli, se si ha un po’ di pazienza e ci si indirizza su venditori affidabili. Attenzione ovviamente ai costi di spedizione, che in molti casi possono superare ampiamente quelli del ricambio, rendendolo improponibile (per noi); molti venditori americani, poi, non sono interessati a vendere oltreoceano, accontentandosi del già vastissimo mercato locale: meglio quindi chiedere prima di fare un’offerta.
Una curiosità: a suo tempo l’Honda offriva alcuni optional dedicati alla Nighthawk 450, nello specifico il paramotore, una coppia di borsoni laterali in pelle (“deluxe”), una di borsoni in nylon, un poggiaschiena per il passeggero, un portapacchi e un telo copri-moto. Mai usciti dal mercato americano, chi li ha se li tiene evidentemente ben stretti, perché di fatto pressoché introvabili, pure su eBay...

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